La partita sulle "Generali"

Quando il nuovismo a tutti i costi fa male alla finanza

di Gianfranco Polillo

Sulle "Generali", la grande compagnia di assicurazioni e al tempo stesso lo scrigno della finanza italiana, si sta giocando una partita che va ben oltre i confini dell’economia, per investire gli equilibri di fondo del Paese. E’ bene quindi che, nel definire i futuri assetti di potere, non si facciano errori. Nessuno spazio alle sperimentazioni o alle suggestioni del "nuovismo". Come hanno insegnato le vicende più recenti, chi lascia la vecchia strada può incontrare il lupo e produrre, come nel caso della Lehman Brothers, immensi disastri. Vale quindi la pena stilare un piccolo pro-memoria, affinché chi deve decidere tenga conto dei parametri della storia e non solo del gioco finanziario.

Finora l’equilibrio di sistema si basava su due distinti presupposti: Mediobanca, sotto la presidenza di Cesare Geronzi, da un lato; Antoine Bernheim, presidente di Generali, dall’altro. Quest’ultimo, in teoria, in rappresentanza degli interessi francesi. Di fatto più italiano di molti connazionali. Rapporto complesso, quello tra questi due poli: con qualche screzio, come capita nelle migliori famiglie, ma in grado di reggere alle sollecitazioni di un mercato dinamico ed agguerrito, com’è quello della grande finanza. Merito soprattutto di Mediobanca e della sua esperienza, da molti accusata di essere il vero regista delle più importanti operazioni. Una denuncia all’antitrust e una bolla di sapone.

Il problema nasce dalla venerabile età – 85 anni – del Presidente di Generali. E’ quindi probabile che con l’assemblea del prossimo aprile si debba decidere la successione. Quale può essere la possibile soluzione? Non spetta naturalmente a noi fare nomi. Una cosa, però, non possiamo dimenticare: siamo troppo legati alla storia di Mediobanca, non solo perché quella fu una creatura di Enrico Cuccia, ma per il ruolo che quella banca ha avuto nel gestire gli equilibri di fondo del capitalismo italiano in momenti non certo tranquilli per la vita economica e sociale del Paese.

Era stata una filiazione delle tre grandi banche pubbliche d’interesse nazionale: Comit, Banco di Roma, Credit. Con questi mastodontici istituti non aveva tuttavia un rapporto ancillare. La sua gestione era del tutto autonoma e svincolata dai legami, non sempre trasparenti, del suo azionariato di riferimento con la politica italiana. Due i punti di forza: era l’unica banca d’affari italiana ed era diretta da Enrico Cuccia, la cui autorità morale e il cui prestigio erano indiscussi. Cuccia apparteneva – checché ne pensi Sergio Siglienti - alla schiera dei Mattioli e dei Toepliz. Era un banchiere, ma con una visione di carattere più generale che gli consentiva di misurarsi sia con le complesse geometrie finanziarie, che con lo stillicidio della politica. Fu l’organizzatore del capitalismo familiare italiano, ma anche il più forte difensore di uno spazio di libero mercato contro i tentativi d’invasione di una struttura pubblica che allora aveva una posizione quasi dominante. Per questo fu, al tempo stesso, temuto ed osteggiato.

Quei principi – principi che hanno consentito alla finanza italiana di reggere meglio all’urto della crisi internazionale – non possono essere abbandonati. Dove saremmo finiti se avessimo accettato la visione modernizzante dei nuovi "capitani coraggiosi" allevati nelle file della McKinsey? Ecco perché non enfatizzare il mito della discontinuità diventa importante. Se l’equilibrio tra Mediobanca e Generali deve inevitabilmente cambiare, è necessario che quel ricambio avvenga nel solco di una più antica tradizione: l’unica che ci difende dagli apprendisti stregoni, in un momento di grande difficoltà complessiva.